Perchè potrete contare solo sulla nostra rabbia
A pochi giorni dall’Appello del processo di L’Aquila vogliamo condividere alcune riflessioni scaturite nel corso di questo ultimo anno in cui abbiamo espresso la nostra solidarietà alla donna lasciata in fin di vita davanti alla discoteca di Pizzoli.
Il processo di L’Aquila ha mostrato emblematicamente l’ipocrisia e la violenza che caratterizzano i processi per stupro, armi di cui si serve il potere patriarcale nel momento in cui una donna esplicita la violenza subita.
In questo processo in particolare sono evidenti le complicità tra potere militare e giuridico; reti di complicità e omissioni che hanno coinvolto persino il Pronto Soccorso che ha accolto la ragazza e che, parallelamente alla vicenda giudiziaria, hanno costruito anche il discorso mediatico.
A L’Aquila è stato legittimo stuprare e tentare di uccidere una ragazza da parte un gruppo di uomini in divisa.
La mentalità dell’esercito e dei corpi militari in generale spinge a rafforzare una cooptazione maschile basata su una disciplina indiscutibile. Gli uomini che stuprano in situazioni di conflitto o guerra sono individui che si sentono autorizzati a quel comportamento perché indossano una divisa che è la stessa che li protegge. Questa logica non viene agita solo sui territori di guerra e conflitto ma diventa strumento di ordinaria amministrazione dei contesti cosiddetti civili.
Così L’Aquila ci ha raccontato come viene autorizzata e perpetuata la cultura dello stupro attraverso gli apparati militari e in seguito politico-giuridici e come, in un territorio controllato e governato da una particolare sperimentazione sociale dal terremoto in poi, venga garantita la possibilità che lo Stato non processi se stesso. Infatti il processo di L’Aquila mostra come non ci sia più neanche bisogno della retorica della mela marcia, perché a L’Aquila come in tutti i territori militarizzati, i limiti del diritto e di cosa è legittimo o no, saltano.
Dunque, sul piano simbolico e non solo, casi che sembrano eccezionali (L’Aquila, San Basilio, Quadraro) rafforzano l’immaginario del corpo della donna come territorio di conquista.
Anche il sistema legislativo e giudicante ha espresso la non volontà della ricostruzione reale dei fatti avvenuti in quella discoteca a Pizzoli e confermato la contraddittorietà del piano legale per le donne che subiscono violenza.
Inoltre nel caso del processo di L’Aquila la debolezza dello strumento legale si è amplificata perché non sono state rispettate neanche le procedure di indagine ordinarie minime consentite. Questo svela come – al di là di provvedimenti legali sempre più
formalmente specificanti delle diverse forme di violenza contro le
donne(come ad esempio lo stalking) – nella realtà e nella concretezza di
quello che avviene nei tribunali non sono mai le donne a definire, nominare e reagire alla violenza contro di loro.
Le leggi non corrispondono alle nostre esigenze, perché lo stupro è la minaccia sociale attraverso la quale il controllo sulle donne e le lesbiche è garantito.
Eppure anche se il piano legale è tutto compromesso a volte manteniamo un dialogo frustrante con le istituzioni, che presentano la denuncia legale come il solo strumento di rottura del silenzio.
Molte donne scelgono la denuncia come modo di rendere visibile la loro esperienza, perché è alla società che richiedono un riconoscimento di quello che hanno subìto. La nostra presenza davanti ai tribunali accanto alle donne che intraprendono questo percorso è perché non neghiamo le differenti forme con le quali le donne decidono di rompere il silenzio e perché sappiamo quanto è violento l’apparato giudiziario e mediatico contro le donne che decidono di denunciare.
Crediamo che la scelta del percorso della denuncia sia legata però alla grande difficoltà di rottura collettiva del tabù dello stupro. Riconosciamo che questo tabù ci limita nell’immaginare delle risposte collettive ed individuali diverse alla denuncia legale. La difficoltà di un discorso delle donne e delle lesbiche contro la violenza che subiamo, difficoltà che sta dentro alla fatica di smascherare e lottare contro il potere patriarcale così radicato, compromette la nostra libertà di reagire alla violenza.
La storia dello stupro sui nostri corpi la vogliamo raccontare noi.
Una storia che deve essere detta perché lo stupro è una pratica di annientamento e un atto di guerra dentro un discorso politico e sociale che la vuole astorica, per non disegnarne i contorni, riassorbendo gli agenti nella “normalità” dell’esistente. Accade nelle famiglie, accade nei quartieri, accade nei territori occupati delle tante guerre. Chi è uno stupratore? Chi è uno stupratore in divisa ? Chi sono Tuccia, Buccella e Schiavone?
Dobbiamo riappropriarci delle parole per dire questo esistente, perché una storia raccontata da noi ci può riconsegnare a noi stesse.
Per questo saremo all’Aquila il 6 dicembre all’apertura dell’udienza di appello con la ferma intenzione di portare la nostra voce in quel territorio con tutte le forme necessarie.
Assemblea domani martedì 3 Dicembre ore 20 Via dei Volsci 22
Compagne femministe e lesbiche
militariallaquila@anche.no
Commenti recenti