Un articolo di Ilaria Boiano di oggi su Il manifesto
L’Aquila. Si apre oggi il processo che mette sul banco dell’accusa le femministe che avevano documentato il trattamento riservato a una donna stuprata.
Questa mattina si apre dinanzi al Tribunale de l’Aquila il dibattimento per tre attiviste femministe chiamate a rispondere di diffamazione aggravata nei confronti del difensore dell’ex militare Francesco Tuccia, condannato definitivamente a sette anni e otto mesi di detenzione per violenza sessuale ai danni di una giovane studente, ridotta quasi in fin di vita dallo stupratore.
Secondo quanto documentato dalle attiviste femministe che hanno presenziato alle udienze del processo, ogni grado del giudizio ha esposto la giovane donna a nuove e ulteriori umiliazioni, come accade ancora a troppe donne, lasciate in balia di molteplici forme della cosiddetta vittimizzazione secondaria, cioè collegata alle regole procedurali, ma anche alle prassi e al trattamento discriminatorio loro riservato sin dalla presentazione della denuncia e poi lungo tutto l’iter giudiziario.
GLI OSTACOLI ALL’ACCESSO alla giustizia delle donne sono stati ripetutamente denunciati dalla società civile italiana da ultimo dinanzi al Comitato Cedaw che nel luglio 2017 ha di nuovo invitato le autorità italiane ad attivarsi per «migliorare il trattamento delle vittime di violenza contro le donne basata sul genere e a eliminare stereotipi sessisti nel contesto giudiziario».
ANCHE LA COMMISSIONE parlamentare «sul femminicidio, nonché su ogni forma di violenza di genere» del Senato della Repubblica nella sua relazione conclusiva approvata il 6 febbraio scorso ha rilevato la necessità di promuovere la formazione sistematica di tutte le figure professionali coinvolte nella risposta alla violenza nei confronti delle donne.
NONOSTANTE CIÒ, esercitare un legittimo diritto di critica contro le prassi discriminatorie e lesive dei diritti delle donne che denunciano violenza di genere espone al rischio di censura e stigmatizzazione: accanto al caso delle attiviste oggi convocate dinanzi al tribunale de L’Aquila, segnalo ad esempio la levata di scudi contro l’avvocata che ha richiesto l’avvio del procedimento disciplinare dinanzi al Consiglio dell’ordine degli avvocati di Firenze per le modalità di conduzione del controesame di due donne americane che hanno denunciato lo stupro da parte di due carabinieri. Il Consiglio dell’ordine degli avvocati di Firenze, infatti, in risposta alle censure mosse all’operato della difesa dei due carabinieri indagati, ha ritenuto «inammissibile qualsivoglia forma di ingerenza esterna in un rapporto di dialettica processuale, governato dalle norme del codice di rito», dimenticando però che il codice di procedura penale vieta domande sulla vita privata o sulla sessualità della persona offesa (articolo 472 del codice di procedura penale) e modalità di conduzione dell’esame testimoniale non rispettose della persona o che risultino violare lealtà dell’esame e correttezza delle contestazioni (art. 499 c.p.p.).
NEL CASO FIORENTINO, proprio in ragione di queste disposizioni è ripetutamente intervenuta l’autorità giudiziaria che, secondo quanto riportato dalla stampa, avrebbe ritenuto inammissibili molte delle domande poste perché riguardanti la sfera intima, non consentendo così al collegio difensivo degli imputati «di tornare indietro di cinquant’anni», per citare proprio la giudice che ha assunto l’esame testimoniale delle due donne dinanzi al Tribunale di Firenze.
LE NORME MENZIONATE sono state introdotte dalla legge 15 febbraio 1996 n. 66 contro la violenza sessuale e prevedono dei correttivi richiesti a gran voce proprio dal movimento delle donne e ciò perché le donne, nel corso dei processi penali per violenza sessuale, da parte lesa venivano sistematicamente messe sotto accusa per le loro abitudini e la loro vita sessuale, per il loro vestiario, per la condotta “sregolata” che, secondo il pregiudizio diffuso, sarebbe da ritenersi una provocazione dell’aggressione sessuale, così come documentato dallo storico film Processo per stupro del 1979 di Loredana Rotondo.
I FILTRI DEL CODICE DI RITO sono stati integrati negli ultimi anni dal diritto internazionale (convenzione di Istanbul) e dal diritto dell’Unione europea (direttiva 2012/29/UE), ma l’esperienza di molte donne che oggi denunciano conferma la validità di quanto scriveva Lia Cigarini alla vigilia dell’approvazione della legge 66/1996: per quanto si possa scrivere una legge buona, «la macchina della giustizia è tutta un’altra cosa: in tribunale, in un processo si riproducono rapporti di forza determinati e sfavorevoli alle donne», e ciò anche a causa dell’incultura di una parte degli operatori del diritto, compresa l’avvocatura, che intende la libertà della difesa nei termini di “licenza di offesa” nei confronti delle donne che denunciano violenza sessuale, ma anche maltrattamenti e atti persecutori subiti da parte di partner o ex partner.
LE VICENDE RICORDATE portano a dubitare del fatto che l’adesione espressa a più riprese dalle autorità ai più importanti atti internazionali in tema di diritti delle donne e di prevenzione della violenza sessista sia motivata da un’autentica condivisione di quel progetto di cambiamento culturale e sociale necessario per assicurare una risposta pubblica efficace e rispettosa dei bisogni e desideri delle donne.
Anzi, davanti alla refrattarietà degli operatori alla concreta implementazione delle norme poste a salvaguardia dell’integrità psicofisica delle donne che denunciano violenza di genere, si aggiunge una forte spinta reazionaria alimentata dalla diffusa attitudine a giustificare gli autori di violenza con le più disparate motivazioni (ha agito in preda ad un raptus, per disperazione, gelosia, ecc.), arrivando così ad alimentare una narrazione pubblica che ancora condona la violenza di genere, anzi la rinforza attraverso la violenza sessista che agisce a livello del simbolico, intendendo come tale quella che si dispiega attraverso la riproduzione di prassi discriminatorie che rendono alle donne difficile non solo ottenere giustizia, ma anche avere il coraggio di richiederla.
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