E’ il 12 febbraio del 2012 quando Rosa si trova con una sua amica in una discoteca a Pizzoli.
E’ sabato sera e a L’Aquila fa molto freddo. Nella discoteca non ci sono tante persone se non quei militari che il terremoto ha portato là per l’ Operazione strade sicure.
Verso le 4:00 di mattina Rosa verrà ritrovata in mezzo alla neve, con una temperatura sotto zero, sanguinante e in stato di non coscienza. Altri cinque minuti e sarebbe morta. Almeno tre i militari direttamente responsabili della violenza.
L’8 gennaio 2015 alla Corte Suprema di Cassazione si svolgerà l’ultima tappa del processo per lo stupro avvenuto quel 12 febbraio. L’unico imputato su tre responsabili, Francesco Tuccia (Michele Schiavone e Stefano Buccella, gli altri due), dopo esser stato condannato colpevole, sta prestando servizio di ambulanza in Campania.
Un processo che la dice lunga sull’ipocrisia e sulla violenza caratteristiche di qualsiasi processo per stupro, nei quali è la donna a ritrovarsi colpevolizzata e ridicolizzata; dove il Pronto Soccorso dell’ospedale cerca di nascondere la violenza efferata prescrivendo solo 20 giorni di prognosi ad una ragazza in fin di vita; dove nelle arringhe dell’avvocato difensore diventa legittimo stuprare una ragazza da parte di un gruppo di uomini in divisa; dove il sistema legislativo e giudiziario mostra la non volontà della ricostruzione dei fatti accaduti in quella discoteca a Pizzoli, poiché il piano legale non può rischiare di contraddire la cultura dello stupro che lo regge. Una cultura imbevuta della violenza maschile sulle donne che permea la nostra società ed è l’arma con la quale esercitano il controllo su di noi.
Tante le reti di complicità e omissioni che si sono preoccupate di imbastire una storia di menzogne e giustificazione. Una storia nella quale il potere militare-politico è così forte che non ha più bisogno della retorica della mela marcia, dove si addossa la colpa al solo singolo e non all’intero sistema, poiché a L’Aquila, come in tutti i territori militarizzati, gli uomini in divisa fanno del corpo delle donne un territorio di conquista e i limiti del diritto, di cosa sia o meno legittimo saltano. Ma quello che sperimentano nei territori militarizzati diventa sempre più strumento di ordinaria amministrazione dei contesti cosiddetti civili.
Nei tribunali, nelle questure, per strada e in famiglia, lo Stato e la Legge si impegnano a cancellare la voce delle donne che nominano e reagiscono alla violenza. La Legge non potrà mai corrispondere alle nostre esigenze perché essa si preoccupa di difendere e perpetuare, la cultura dello stupro.
Tutto questo risulta evidente anche dall’ultimo decreto antifemminicidio. Un “Piano di azione straordinario contro la violenza sessuale e di genere” che fa rientrare il contrasto alla violenza di genere in un pacchetto in cui la donna è dichiarata come “soggetto debole” da tutelare persino da se stessa, togliendole anche il diritto di autodeterminazione, laddove le impedisce di revocare la querela anche nel caso sia fatta da altri e non dalla donna che ha subito la violenza. Purtroppo di straordinario nella violenza maschile contro le donne c’è ben poco, non è un’emergenza in quanto è un dato strutturale della nostra società che non può essere affrontato con misure straordinarie.
Rispondiamo a tutto questo con la solidarietà tra donne, a fianco di Rosa, di tutte quelle che in diverse forme rompono il silenzio e che spesso per questo sono esposte alla vendetta e alla violenza del sistema giudiziario e mediatico.
Affinché la fatica di raccontare i nostri vissuti e smascherare la violenza che subiamo sia compensata dalla forza che viene dalla consapevolezza e dalle nostre reazioni per combatterla.
Affinché la nostra voce si possa sentire nel rumore e nella confusione prodotti dalla cultura dello stupro.
Affinché questo rumore confuso non ci impedisca di reagire insieme aldilà della denuncia legale!
8 gennaio ore 10 (puntuali) Piazza Cavour
davanti alla Corte Suprema di Cassazione
Compagne femministe e lesbiche
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